Agricoltura e industria: una storia da ricordare
Fino alla fine del diciannovesimo secolo, la storia dell’umanità si è identificata, anzi, ha coinciso con la storia dell’agricoltura e dei suoi andamenti. Anche se non le è stata riconosciuta l’attenzione, che forse in misura decisamente maggiore, e di gran lunga maggiore, avrebbe meritato, la sorella povera dell’industria (come negli ultimi settant’anni è stata soprannominata) per ben oltre diecimila anni ha costituito il fondamento della vita economica e sociale della maggioranza delle popolazioni mondiali occupate direttamente e/o indirettamente in attività agricole e pastorali.
Il processo d’industrializzazione (che ha avuto inizio nell’Europa occidentale e che si è diffuso lentamente nelle regioni d’altri continenti dove esistevano insediamenti europei e in seguito in molte altre parti del mondo) ha ridotto in misura significativa l’importanza non solo assoluta ma anche in termini relativi dell’agricoltura nell’economia. Ad oggi, nel mondo occidentale, soltanto il due per cento della forza lavoro è impiegata in agricoltura, mentre in tutto il resto del mondo, poco più di un terzo della forza lavoro retribuita è impiegata nel settore agricolo. Nonostante gli storici dell’economia abbiano concentrato la loro attenzione in prevalenza sulla storia politica mostrando quasi un totale interesse per la vita delle città e le fortune delle sue industrie, sarebbe altrettanto entusiasmante soffermarsi anche su quelli che sono stati gli avvenimenti, se vogliamo, meno esaltanti e più prosaici, forse, della vita agricola.
Due sono gli aspetti della vita nei campi su cui gli effetti dell’industrializzazione si sono fatti maggiormente sentire:
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gli effetti sulla domanda
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la disponibilità di nuovi fattori produttivi.
Nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo i redditi sono bassi e ciò, in prima istanza, si riflette nel regime alimentare della maggioranza della popolazione. Non a caso, meno di un decimo dell’assunzione di calorie deriva da cibi d’origine animale in confronto al 42% dei Paesi sviluppati. Nei Paesi in via di sviluppo, il consumo medio giornaliero è di sole 2.300 calorie rispetto alle 3.400 circa dei Paesi sviluppati.
In un documento ufficiale della FAO di qualche decennio fa, venivano riportate delle stime in cui veniva evidenziato il fatto che “circa un quinto della popolazione dei Paesi in via di sviluppo ha un regime alimentare al di sotto del minimo necessario per mantenersi in buone condizioni di salute”. Non vi sono molte informazioni attendibili relative al consumo alimentare medio nel passato ma quelle che ci sono suggeriscono che il consumo alimentare medio nel passato in Europa occidentale prima del 1850 era analogo a quello attuale dei Paesi in via di sviluppo.
Tra gli storici, vi sono delle posizioni assai discordanti in merito alla constatazione che la rivoluzione industriale abbia portato immediati benefici alla popolazione. Anche gli studi condotti sugli aumenti dei salari inglesi si sono, purtroppo, dimostrati incapaci di fornire delle informazioni plausibili nell’uno e nell’altro caso. Tutti concordano nell’asserire che dal 1840 i livelli di vita si stavano decisamente innalzando. Ciò ebbe due conseguenze. Primo, il maggior reddito poteva essere speso per l’acquisto di una maggiore quantità di cibo e di cibo più costoso; secondo, una più elevata quota del reddito poteva essere spesa per prodotti non alimentari, creando in tal modo un aumento della domanda per i prodotti industriali, molti dei quali, a loro volta, incorporavano prodotti agricoli come materie prime.
Naturalmente quest’aspetto fu di particolare rilevanza, in buona sostanza: si andava invertendo la percentuale di reddito dei consumatori verso i prodotti alimentari passando da un 70-80% del reddito totale in acquisti per cibo ad un 28-30% degli inizi ‘900. In una società povera, la prima reazione ad una crescita dei redditi, così com’erano gran parte dei Paesi dell’Europa occidentale prima del 1850, è di aumentare il consumo dei prodotti più usuali e comuni come i cereali e le patate per ottenere un adeguato consumo calorico. Una volta soddisfatta la fame, vi è un passaggio al prodotto preferito.
Nel Galles del 1650, il pane fatto con farina di grano era un lusso giacché solo un quarto della popolazione poteva nutrirsene e la restante parte si accontentava di pane di segale, di farina d’orzo o d’avena. Nel 1900, il pane di grano era mangiato praticamente da tutti. Un ulteriore aumento del reddito determina la scelta di cibi più gustosi ma più costosi generalmente con un più alto contenuto proteico: latte, carne e verdure facendo abbassare il valore assoluto il consumo di pane e patate. Altro effetto, di portata storica, è stata la creazione da parte della rivoluzione industriale di una grande domanda di materie prime inorganiche per l’industria e, in effetti, dalla fine del diciottesimo secolo la dipendenza dell’industria dall’agricoltura per le sua materia prime diminuì notevolmente man mano che i metalli, i mattoni e le plastiche rimpiazzavano il legname, il carbone e il petrolio: si sostituivano al legno come combustibili, le fibre sintetiche si affiancavano alla lana e al cotone e le tinture chimiche sostituivano il guado e la robbia. Ma, inizialmente, la rivoluzione industriale creò una forte domanda di prodotti agricoli consolidati e solo successivamente nel corso del secolo si determinò un domanda per nuove colture. Così come si generarono nuovi tipi di domanda per l’agricoltura, la rivoluzione industriale migliorò i metodi consolidati e creò anche nuovi fattori produttivi in fattori produttivi che accrescono il rendimento unitario dell’area messa a coltura, oppure risparmiatori di terra oppure risparmiatori di lavoro che fanno aumentare il prodotto per ora – lavoro.
L’evoluzione della storia economica ed i riflessi di quest’ultima nella vita quotidiana restano un elemento da studiare per capire da dove veniamo e, soprattutto, dove andiamo, cercando di porre le basi migliori per uno sviluppo economico ed un benessere sempre più diffusi.